Incipit: “Nel novembre 1943 Etty Hillesum, cuore pensante del campo di concentramento, muore ad Auschwitz. Il 1943 è l’anno in cui, proprio come in un passaggio di testimone, a Forlì nasce Annalena. Dopo il suo assassinio, fra le poche cose nella sua stanza c’era proprio il diario di Etty che Annalena ricercava, assieme alla bibbia, quando le veniva rubato tutto.”
Un mercoledì mattina del febbraio 1942 Etty si trova assieme ad altri ebrei nei locali della Gestapo per essere registrata. Ora la scena si divide come in due, lei infatti comprende subito che sì, i fatti di queste vite erano uguali, tutti nello stesso ambiente, tutti da una parte o dall’altra della scrivania della Gestapo nel medesimo, avvenimento…ma, lei scrive: “ciò che qualificava la vita era l’atteggiamento interiore verso quei fatti”. Ed Etty compie dentro di sé un passo decisivo, osserva l’anima dei suoi carnefici.
Così mentre un giovane ragazzo della Gestapo urla contro di loro, contro anche ad Etty per il suo volto sorridente nel guardarlo mentre sbuffa e urla “mani fuori dalle tasche”; lei scopre di non essere spaventata. Scrive: “in fondo io non ho paura, non per una forma di temerarietà, ma perché sono cosciente del fatto che ho a che fare con degli esseri umani”.
E su quel giovane della Gestapo urlante, dall’aria “tormentata e assillata” non ne prova sdegno anzi, scrive, avrei voluto chiedergli: “ hai avuto una giovinezza così triste? O sei stato tradito dalla tua ragazza?” E appunta quella straordinaria considerazione, “avrei voluto cominciare subito a curarlo […]”.
Un’altra cosa che Etty impara quella mattina di febbraio è, riporta, “la mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l’ingiustizia che ci sono al mondo”.
Questa convinzione di Etty è frutto di un lavoro che lei ha compiuto interiormente. Un processo cominciato proprio mentre l’odio e la paura iniziavano a spargersi all’interno della sua stessa comunità e anche in lei. Circa un anno prima, marzo del 1941, si trova con Julius Spier, il famoso S. del diario, quello che le aveva consigliato di tenere un’agenda e di leggere l’antico e il nuovo testamento e scrive così:
“Ieri pomeriggio abbiamo scorso insieme le note che mi aveva dato. Quando siamo arrivati alla frase: basta che esista una sola persona degna di esser chiamata tale per poter credere negli uomini, nell’umanità, m’è venuto spontaneo buttargli le braccia al collo.
E’ un problema attuale: il grande odio per i tedeschi che ci avvelena l’animo. Espressioni come: “che anneghino tutti, canaglie, che muoiano col gas”, fanno ormai parte della nostra conversazione quotidiana.
Ed ecco che improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero liberatore, simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto d’erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero.
Questo non significa che uno sia indulgente nei confronti di determinate tendenze, si deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire, ma quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. E’ una malattia dell’anima.”
Più avanti Etty ritorna sull’importanza del provare un senso di indignazione ma fa una puntualizzazione credo molto pungente per tutti noi.
“Molti di coloro che oggi s’indignano per certe ingiustizie, a ben guardare s’indignano solo perché quelle ingiustizie toccano proprio a loro: quindi non è una indignazione veramente radicata e profonda”
Il 23 settembre 1942 descrive così un dialogo con Klaas Smelik: “Klaas, non si combina niente con l’odio, la realtà è ben diversa da come ce la costruiamo noi. Klaas, volevo solo dire questo: abbiamo ancora così tanto da fare con noi stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto di odiare i nostri cosiddetti nemici. Siamo ancora abbastanza nemici fra noi. E non ho neppure finito quando dico che anche fra noi esistono carnefici e persone malvagie. In fondo io non credo affatto nelle cosiddette «persone malvagie». Vorrei poter raggiungere le paure di quell’uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori, Klaas, è l’unica cosa che possiamo fare di questi tempi. […] non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancora più inospitale”.
Etty comprende che l’odio non si limita a distruggere l’anima del nemico ma annienta anche la propria, lei abbraccia l’umano, percepisce l’uomo nella propria interezza, vede la scintilla divina. Vive gli accadimenti consapevolmente, totalmente coinvolta, anima e corpo, calata all’interno della tragedia del suo popolo e di tutto un continente. Spesso nelle sue lettere afferma di essere felice, scrive della bellezza della vita.
Dobbiamo arrivare alla domanda. Da dove attinge tutta questa forza? Questa capacità arriva da qualcosa che lei mette al sicuro, mentre alcuni cercano di nascondere e salvare l’argenteria dallo sciacallaggio nazista, lei sceglie di preservare quel Dio nascosto dentro ad ogni uomo, quel Dio davanti a cui aveva imparato ad inginocchiarsi, inginocchiarsi che definisce: “un gesto intimo come i gesti d’amore”.
Questo Dio, cruccio di Primo Levi, “C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo” disse in un’intervista. Perchè Dio sembra assistere inerte all’atrocità.
“E se Dio non mi aiuterà più”, scrive Etty, “allora sarò io ad aiutare Dio”. Così si fa prossima all’uomo ferito, prossima persino a Dio. Lo accompagna, si fa afferrare da Lui”. “Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore”
Un Dio che lei ringrazia perché le ha donato la capacità di “leggere negli altri”. Un Dio a cui cerca “un tetto, una casa, un ricovero”. Che le dona “calma e dolcezza”
Etty nel campo di Westerbork assiste chi soffre, tanti vanno da lei a raccontare le proprie pene. Aveva scritto prima di arrivare: “Si deve diventare…semplici …come il grano che cresce o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere (“The best is to be” scriverà Annalena). E io, sono già abbastanza avanti da poter dire: spero di andare al campo di lavoro per poter essere di appoggio alle ragazzine di sedici anni, per rassicurare i genitori rimasti indietro, non siate inquieti, vigilerò sui vostri figli”. Le sue lettere testimoniano un amore che si riversa verso ogni persona. Lei lo dirà esplicitamente che questo amore viene dal suo cuore, è l’amore di cui parla l’ebreo Paolo ai Corinzi e lei ne è ricca, lo porta dentro di sé divenendo un balsamo per gli altri. In una lettera a Maria Tuinzing dell’8 agosto 1943 Etty scrive: “Qui molti sentono languire il proprio amore per l’umanità, perché questo amore non è nutrito dall’esterno […] Ma ho dovuto ripetutamente constatare in me stessa, che non esiste nessun nesso causale fra il comportamento delle persone e l’amore che si prova per loro. Questo amore del prossimo è come un ardore elementare che alimenta la vita.”
Ora vi conduco nel 1984, siamo nel deserto fra il Kenya e la Somalia. Un tentativo di genocidio è stato appena compiuto dall’esercito regolare del Kenya ai danni di una tribù somala. L’eccidio si è fermato ai primi mille morti, cinquantamila dovevano soccombere. A fermare tutto una esile donna, italiana, forlivese: Annalena. Lei si trova lì già da diciassette anni a servire quelli che definisce “brandelli di una umanità ferita”, bambini con gravi handicap, malati di tbc. Ha creato un centro che chiama la “fraternità della gioia” nel quale si prende cura con scuole e centri medici di questi ultimi del mondo. Annalena, scoperto quello che sta accadendo, corre verso l’aeroporto dove l’esercito sta ammassando centinaia di persone, altri sono stati arsi vivi nelle capanne. Lei interviene, viene più volte picchiata dalla polizia mentre recupera i feriti. Seppellisce alcuni morti nel compound del suo centro, scatta delle fotografie che finiscono alle ambasciate dei paesi occidentali. Il Kenya viene “scoperto” e l’operazione appunto si ferma ai primi mille morti. Ma c’è questa scomoda testimone che viene portata innanzi ad una finta commissione d’inchiesta, vogliono estorcerle una verità diversa. La avvertono che è già scampata a due attentati ma che questo non accadrà al terzo. Pongo l’accento su una lettera che scrive in quei giorni. “La cosa più meravigliosa, tutto frutto della fedeltà e della grazia di Dio è che io non ho neppure mai sentito, mai provato nessun sentimento né di odio, né di violenza contro quelli che hanno condotto l’operazione. Continuo ad andare loro incontro con animo pulito, sgombro, amico. È una grazia tale, che ne rimango io stessa attonita”.
Alla fine verrà, come scrive lei, “deportata” fuori dal Kenya, infatti viene espulsa come persona non gradita.
Rientra in breve nuovamente al servizio del popolo somalo che non abbandonerà mai fino alla fine. Vive l’inferno di un paese in guerra. Fratello contro fratello. Tutte le organizzazioni umanitarie si ritirano. Lei può salvarsi, come Etty, ma sceglie di restare all’interno del martirio di quella che è divenuta la sua gente e di cui è madre.
“…resto calata in un solco che amo, di cui vivo tutto il privilegio…io rimango fedele al mio manipolo di sventurati. Non potrei mai abbandonare questi poveri, e finchè Dio mi darà vita io sarò con loro e per loro…”.
Annalena si trova ad aver a che fare con una “pasta umana” difficile, povera di tutto, ignorante, rozza, diremmo tutti, cattiva.
Sempre in ogni posto in cui arriva all’inizio le tirano i sassi. Le urlano “gaalo!” (pagana). Poi, al “calore della giardiniera di uomini” innanzi a questo amore disinteressato, anche i cuori più duri si sciolgono. Annalena infatti usa “l’intelligenza del cuore” per la cura, la stessa cura che Etty Hillesum, “cuore pensante” avrebbe voluto dare al soldato della Gestapo e che ha compiuto verso i suoi della baracca.
Scrive Annalena: “L’uomo non buono, l’uomo incapace di perdono, l’uomo che ama ferire, l’uomo che vuole la vendetta, l’uomo falso non sono uomini cattivi, incapaci di perdono, falsi necessariamente. Lo sono perché non hanno incontrato sul loro cammino una creatura capace di comprenderli, di amarli, di farsi carico delle loro colpe…”
“Tu hai fatto del male? Io pagherò al posto tuo”. Così diceva Gandhi. Così ci ripete Gesù Cristo da duemila anni… chissà perché noi uomini siamo così sordi… Certo la sua voce è spesso piccola e silenziosa…” “LUI è nella celletta della nostra anima […]”
“Se non amo”, scrive e sentite la connessione con Etty, “DIO muore sulla terra, perché siamo noi il segno visibile della Sua presenza e lo rendiamo vivo in questo inferno di mondo dove pare che LUI non ci sia, ogni volta che ci fermiamo presso un uomo ferito”
“Ci vuole un giardiniere che ama per far sbocciare una rosa… le creature del mondo sono fiori chiusi. Alcuni sbocceranno: altri, moltissimi altri, nati chiusi vivranno e moriranno chiusi, ma sarebbero potuti sbocciare se…. gli uomini intorno a loro fossero stati un poco diversi […] Di giardinieri per le masse dei poveri non se ne trovano, se non rarissimi, viaggiando per tutte le contrade del mondo, dove chissà quanti vivono e muoiono come se non fossero mai nati…”. “Io non ho il desiderio di vedere il fiore. Altri lo vedranno”.
Ha vissuto per 35 anni in un mondo duro, fanatico, intollerante. E’ stata assassinata il 5 Ottobre del 2003, vent’anni dopo possiamo ancora dire che la vita non le è stata rubata, impossibile toglierla a chi ha deciso di donarla interamente.
“Esperimento nella carne la cattiveria dell’uomo, la sua crudeltà… ma vado avanti con un amore più forte di ogni odio…”.
Concludo con una riflessione e un appello o forse dovrei dire preghiera. La riflessione è questa: Etty inizia a pregare un Dio che trova dentro di sé, un Dio di cui Annalena avverte la presenza interiore fin da bambina. Entrambe si ritrovano in ginocchio ad ascoltare e a proteggere questa silenziosa voce. A Westerbork come nel Corno d’Africa, aiutano gli ebrei e i somali ammassati lì dove possono. Vivono esclusivamente nel presente. Non possiedono nulla e, proprio per questo, possiedono tutto. Vivono stagioni di grande illuminazione in cui si sentono completamente salve, qualunque cosa accada. Per questo non hanno paura.
Dal diario della Hillesum emerge l’idea di Carl Gustav Jung secondo cui l’anima cerca di completarsi da sola. Si tratta di un processo autonomo, chiaro nelle parole di Etty: “Non devo volere le cose, devo lasciare che le cose si compiano in me.”
Quando si comprende che il tempo è poco, l’anima cresce più velocemente e più intensamente. Il diario di Etty, la vita di Annalena indicano questo processo di lasciare che l’anima faccia il suo corso. Una cara amica direbbe “fermare il teppismo della ragione” (MT Battistini). Anche della ragione “giusta” che si ha per odiare.
L’appello/preghiera è questo:
Dal grembo del Creatore in cui ora riposate, Etty, Annalena. Là dove finalmente è svelato il mistero insondabile del male e del dolore innocente, noi vi chiediamo di sostenerci nella fatica della nostra debole fede, perché continuiamo ad opporre ad ogni nuova ingiustizia, ad ogni nuovo crimine, un pezzetto di amore, di bontà e di mitezza che avremo conquistato in noi stessi.
Andrea Saletti – Gennaio 2024